Sulle tavole e nella dieta dell’antica Grecia erano immancabili tanto quanto lo sono su quelle di una famiglia europea o mediterranea moderna: crude e cotte, da sempre. L’oliva è spesso associata all’olio da cucina nonostante faccia parte di diritto del nostro pasto quotidiano da millenni. Eppure quella “da tavola” è divenuta la compagna inseparabile di aperitivi ed happy hour, così come di spuntini e di insalate in cui non manca praticamente mai. Tra crude e cotte nel mondo se ne consumano 700mila tonnellate. E se la bilancia è spostata su quelle crude, oggi è sempre più utilizzata in cucina: nei sughi e nelle salse come nel pane e nelle pizze, nelle insalate e sottoforma di paté.

E’ impensabile cucinare i peperoni al gratin, uno dei piatti tipici del menù tricolore, come le scarole stufate senza qualche oliva nerameglio se di Gaeta. Ma le olive sono le protagoniste di tanti primi piatti tradizionali come gli spaghetti alla marinara, la puttanesca o la pasta con le sarde. La classica insalata di rinforzo napoletana, tipica del periodo natalizio, è inimmaginabile senza una buona dose di olive bianche e nere. Senza parlare di quelle ripiene e delle olive all’ascolana, riconosciute come PAT, Prodotto Agroalimentare Tradizionale e preparate rigorosamente con olive ascolane Dop. Ma sono presenti anche in tanti contorni: carote, fagioli, zucchine… portarli a tavola senza un po’ di prezzemolo e qualche oliva non è la stessa cosa.

Il Martini, l’aperitivo più diffuso al mondo, deve la sua fortuna a quell’oliva aggiunta dal barista Julio Richelieu quando l’inventò nel 1874 mixando 2/3 di Gin con 1/3 di Vermouth e una spruzzata di bitter all’arancia, che ne è diventata anche il simbolo comunicativo. Oggi non c’è aperitivo che conta senza l’oliva sul fondo del bicchiere.

Tre le varietà più famose delle circa 500 presenti in Italia, due legate ai luoghi di origine, quella piccola e nera di Gaeta e la Taggiasca della Riviera ligure e la terza, l’oliva di Napoli, legata, invece, al luogo di lavorazione, la zona di Somma Vesuviana. Conosciuta anche come oliva bianca (o di Napoli, appunto) in realtà è la siliciana nocellara, una delle più buone da tavola. Grande, verde e polposa è gustosissima “alla messinese”, ripiena di un impasto di mollica di pane, olio, sale, acciughe e qualche verdurina sott’aceto finemente tritata. Tanto usate quanto conosciute nell’antichità, già nel 42 A.C. il “De Re Rustica,

Come per le ciliegie vale il detto che “una tira l’altra”, ma a differenza delle prime le olive non possono essere mangiate appena colte. Contengono, infatti, l’oleuropeina che gli conferisce un sapore amaro che va via solo con il trattamento in salamoia, una delle più antiche forme di conservazione dei cibi.

Meno nota ma altrettanto gustosa l’oliva “al forno” o “calabrese”, ottenuta incidendo e infornando olive di Gaeta. Dopo averle lasciate per circa 10 giorni in due strati di sale, vengono lavate e infornate, generalmente su telai di stoffa, preferibilmente in forni a legna e possibilmente al termine della cottura del pane.

Sono un frutto stagionale ma che si trova tutto l’anno, da gennaio a dicembre. Ancora oggi, in molti mercati vengono esposte nei tipici tini di legno in cui da secoli si trattano e si conservano. Così come si trovano praticamente in tutti i banchi di salumeria, anche nei moderni ipermercati, snocciolate, schiacciate e aromatizzate. Paradossalmente, gli Stati Uniti, che principalmente le importano, sono con il 10% il più grande consumatore mondiale. Molto nutrienti aiutano la digestione e proteggono dal tumore del colon, ricche di tocoferoli e tocotrienoli hanno un elevatissimo potere antiossidante, contengono sali minerali e vitamine in percentuale maggiore di verdure e ortaggi.

Tante informazioni sul sito dell’Consiglio Oleicolo Internazionale

 

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