
Fu l’unico formaggio ‘ammesso’ al ricchissimo banchetto organizzato per il matrimonio tra Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona, celebrato nel 1489 a Tortona. Forse Leonardo da Vinci, cerimoniere d’eccezione del nobile pranzo, lo scelse per la sua forma davvero unica, che ricorda quella di una torta nuziale e lo rende ancora oggi uno dei caci più pregiati della tradizione piemontese e italiana. Il Montebore è una formaggetta di latte vaccino e ovino, nata almeno mille anni fa nell’omonima frazione del comune di Dernice (Alessandria), nella Valle del torrente Curone, in un territorio al confine tra Piemonte e Lombardia con pochissime abitazioni, dominato da una natura rigogliosa e incontaminata.
Su una fetta di pane di casareccio o sulla farinata, l’umile focaccia impastata con farina di ceci e acqua, diffusa tra la Liguria e l’alessandrino. Il Montebore fresco è già buonissimo così, ma nella sua terra natale viene abbinato pure a cibi dolcissimi come i fichi e le pere caramellate, la marmellata di arance e il miele di acacia, oppure dal sapore contrastante come le noci o la melata, un miele amarognolo, molto raro e pregiato, o il mosto d’uva. Quello a media stagionatura, invece, nei ristoranti e nelle case del Piemonte viene utilizzato nel risotto, negli sformati di zucca o cardi e per arricchire specialità regionali come i rabaton, grossi gnocchi impastati con ricotta e bietole, cotti in brodo di carne e poi infornati con fiocchetti di burro e salvia, i ravioli ripieni di ricotta e pinoli o la fonduta, o ancora per preparare una salsa da servire con i capunet, involtini di verza e carne di maiale. Il Montebore più stagionato, infine, è ideale da grattugiare sulla pasta.
La forma particolare del Montebore, ottenuta sovrapponendo da tre a cinque robiole di diverse dimensioni, si ispira probabilmente al Castello di Montebore, fortezza ormai diroccata che fu costruita nel XII secolo nei pressi dell’abbazia benedettina di San Pietro di Precipiano, nel vicino borgo di Vignole Barbera. E se l’aspetto desta curiosità, il sapore e il profumo si rivelano sorprendenti: avvolgente e burroso ad un primo assaggio, questo formaggio manifesta in seguito una persistente nota di castagna, unita a un intenso profumo di timo e a sfumature erbacee.
Può essere consumato fresco, dopo una decina di giorni dalla lavorazione, e in questo caso si caratterizza per la pasta bianca e morbida e il sapore più dolce e delicato; con l’aumentare della stagionatura – che va da 45/60 giorni fino a quattro o cinque mesi –, la pasta diventa invece di color giallo paglierino, assumendo una consistenza più dura e un gusto quasi piccante.
Rinato grazie a Slow Food
Rinato grazie a Slow Food
Furono i monaci benedettini dell’Abbazia di Santa Maria di Vendersi, sul Monte Giarolo, che si dedicavano a un’intensa attività casearia, a produrre per la prima volta il prelibato formaggio, tra il IX e il X secolo. Il Montebore, per la sua forma particolare ma anche per la lunga lavorazione, era considerato un cacio ‘nobile’: nell’XI secolo, come attesta un documento dell’epoca, un ricco tortonese ne inviò cinquanta pezzi in dono a un alto prelato, mentre tre secoli più tardi il formaggio arrivò sulla tavola nuziale del duca di Milano e della figlia di Alfonso d’Aragona.
Fino alla prima metà del Novecento, in un anno in Val Curone si producevano in media 1200 chili di formaggio; ma dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale molti giovani lasciarono la valle per trasferirsi in città e il Montebore scomparve gradualmente dai caseifici e dalle tavole. Fino al 1999, quando il formaggio è ‘rinato’ grazie a Slow Food, che ha rintracciato Carolina Bracco, l’ultima depositaria della tecnica originale: è stata lei a trasmettere i segreti della lavorazione a Roberto Grattone e Agata Marchesotti, della Cooperativa Vallenostra di Mongiardino Ligure (Alessandria), che hanno recuperato questa antica e bella tradizione, producendo il Montebore come si faceva oltre mille anni fa. Il formaggio è ricavato unicamente da latte crudo vaccino (per il 75%) e ovino (per il 25%), che viene addensato con caglio naturale; dopo la rottura della cagliata, effettuata con un cucchiaio di legno, la pasta è messa a gocciolare nei ferslin, formelle a forma di cilindro di diametro diverso, e in seguito salata. Estratte dagli stampi, le forme vengono infine sovrapposte e messe a stagionare per un periodo che varia da 9/10 giorni (per il Montebore fresco) fino a cinque mesi (per quello stagionato).