Un piatto unico, nutriente e sostanzioso, ideale da assaporare con l’arrivo dei primi freddi e delle temperature più rigide. La paniscia è una specialità a base di riso e fagioli diffusa in diverse località del Piemonte, con nomi diversi – così è chiamata a Novara, mentre a Vercelli è detta “panissa” e in Valsesia “panizza” o “paniccia” – e alcune varianti che cambiano da una zona all’altra della regione.
Sebbene il procedimento somigli molto a quello del risotto, la paniscia non può essere definita così: esisteva già secoli prima della nascita del riso ed era cucinata con il panico – da cui il nome –, un antico cereale simile al miglio, diffuso sin dall’epoca romana, quando veniva pestato nel mortaio e impiegato per dar vita a una sorta di polenta. Poi, con il diffondersi delle risaie nel novarese e nel vercellese, tra il XV e il XVI secolo, il paniculum fu sostituito dal nuovo cereale: le massaie ne preparavano in grandi quantità utilizzando la pèyla, un pentolone di rame stagnato dai bordi alti, ideale per cuocere il cibo sulla fiamma del camino.
La ricchezza degli ingredienti la rendevano un piatto da riservare alla domenica o agli altri giorni di festa. Al suo interno, infatti, c’erano non solo i fagioli rossi provenienti dalle campagne di Saluggia – comune del vercellese conosciuto come il “Paese dei fagioli”, dove vengono coltivati dal 1495 – o della vicina Villata ma soprattutto un vero e proprio “trionfo” della carne suina: le cotiche, il lardo, talvolta anche un codino di maiale, il salame d’la doja – un insaccato piemontese ricavato da tagli scelti come il culatello, la spalla, la coscia e la coppa e denominato così perché conservato in un recipiente di terracotta, la doja appunto – o, in alternativa, la mortadella di fegato o fidighin, prodotta nella zona del Lago d’Orta e nella Bassa Val Sesia.
In alcune ricette troviamo poi la verza, la salsa di pomodoro, qualche patata, un po’ di “pitascio” e di “farinin” – come suggerito dal sito del ristorante “Il circolo della paniscia” di Novara –, due erbette campestri che regalano al piatto un profumo particolare. A impreziosire il tutto ci sono infine i pregiati vini rossi piemontesi, come il Barbera e il Nebbiolo, da sfumare nel riso.