Prima ancora che si facesse con le patate, il purè era preparato con le fave. Ed era uno dei piatti preferiti di Federico II. La corte federiciana, oltre che per la vivacità culturale, era nota anche per i menù ricchi e ricercati: lo Svevo era un estimatore della buona cucina e, grazie alla considerevole apertura mentale, sulla sua mensa erano “ammessi” piatti poveri, naturalmente rivisitati con un tocco aristocratico. Così una pietanza del popolo come il purè di fave con la cicoria selvatica, nato nel Regno di Sicilia – nel territorio corrispondente alle attuali Puglia e Basilicata –, diventava un contorno prelibato alla tavola del sovrano e dei suoi commensali.
La ricetta del purè di fave è riportata dal Libro della Cocina, un manoscritto del Trecento giunto intatto ai nostri giorni – è conservato nella biblioteca Universitaria di Bologna –, grazie al quale possiamo conoscere l’origine di molti piatti che consumiamo ancora oggi. Secondo la germanista Anna Martellotti, il latino Liber de Coquina, considerato l’antenato del Libro, sarebbe nato proprio per volontà dell’imperatore, amante del cibo, ma non dello spreco o delle “abbuffate” frequenti nei convivi degli altri nobili. La passione del sovrano per la gastronomia si incastrava alla perfezione con quelle per la letteratura e le scienze: Federico II intendeva conoscere e sperimentare anche in campo culinario, perciò nel Liber ritroviamo piatti della cucina pugliese – come la minestra con polpettine di carne – e palermitana, ricca di lussuose pietanze di carne e pesce, provenienti a loro dall’influenza araba.
Delle “fave infrante” – questo il nome originario del purè – il Libro della Cocina fornisce due varianti e, in entrambe, ciò che salta subito all’occhio è l’utilizzo di un alimento dolce come il miele: se l’agrodolce può sembrare un’invenzione recente, in realtà proprio nel Medioevo, nelle cucine dei nobili d’Europa, i cuochi preparavano pietanze salate condite con zucchero e miele.