Cappelletti all’uso di Romagna, crostini di fegatini, cappone lesso accompagnato da un delicato sformato di riso verde, pasticcio di lepre e faraona arrosto. E per dessert Panforte di Siena, Pane certosino di Bologna e gelato alla crema, perché “oltre ad appagare il gusto, avendo la proprietà di richiamare il calore allo stomaco, aiuta la digestione”. Sono le ricette suggerite da Pellegrino Artusi per il pranzo del giorno di Natale, riportate nelle ultime pagine del celebre volume La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene (1891), considerato il primo manuale ‘italiano’ di gastronomia. Un menu interamente a base di carne, nel rispetto della tradizione regionale: fino a non molti decenni fa, infatti, per le famiglie più umili il Natale era spesso l’unico giorno dell’anno in cui ci si concedeva questo alimento così costoso, perciò da Nord a Sud della Penisola le tavole erano dominate da capponi, agnelli, vitelli, per celebrare la nascita di Gesù, ma anche per assicurarsi un futuro più prospero con una sorta di rito propiziatorio.
La proposta artusiana è composta prevalentemente da piatti dell’Italia centrosettentrionale e unisce pietanze tutt’ora diffuse – come i cappelletti e il cappone lesso – ad altre ormai in disuso, come il ricchissimo pasticcio di lepre e besciamella, avvolto in un guscio di pasta sfoglia. Ecco le ricette, per chi volesse aggiungere un tocco particolare al pranzo natalizio:
1. Minestra in brodo: Cappelletti all’uso di Romagna
In apertura Artusi sceglie la più classica delle ricette romagnole: i cappelletti in brodo nella versione diffusa tra Ravenna, Rimini e Forlì, “chiamati così per la loro forma a cappello”, ripieni di “ricotta oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo”, petto di cappone cotto nel burro e tritato, uova, parmigiano, noce moscata e un pizzico di sale. “Questa minestra – spiega il gastronomo – per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini”. Mangiare un piatto di caplèt in brodo il 25 dicembre era considerato in passato di buon auspicio, tanto che alle persone care si augurava di poter portare “cappelletti in tavola per un anno”.
2. Principii: Crostini di fegatini di pollo
“Principii o antipasti – scrive l’Artusi – sono propriamente quelle cosette appetitose che s’imbandiscono per mangiarle o dopo la minestra, come si usa in Toscana, cosa che mi sembra più ragionevole, o prima, come si pratica in altre parti d’Italia”. E proprio dalla Toscana arriva l’antipasto del 25: i crostini di fegatini di pollo. Per prepararli il gastronomo suggerisce di “eliminare la vescichetta del fiele senza romperla”, poi mettere i fegatini “al fuoco insieme con un battutino composto di uno scalogno, e in mancanza di questo di uno spicchio di cipollina bianca, un pezzetto di grasso di prosciutto, alcune foglie di prezzemolo, sedano e carota, un poco d’olio e di burro, sale e pepe”. Dopo aver terminato la cottura con un po’ di brodo e addensato il composto con un pizzico di pangrattato, i fegatini – che nel frattempo avranno raggiunto una consistenza cremosa – vanno serviti con fettine di pane appena bagnate nel brodo.
2. Lesso: Cappone, con uno Sformato di riso verde
Dopo i cappelletti si consuma, naturalmente, il cappone lesso, utilizzato per il brodo. Artusi consiglia di cuocere la carne “entro a un pannolino sottile e legato”, così resterà più bianca “senza che la sostanza del brodo ne soffra”. Il contorno è uno sformato di riso verde, da preparare cuocendo il riso prima con acqua e proseguendo con il brodo del cappone stesso, insaporendolo poi con burro, parmigiano e rossi d’uovo e infine aggiungendo “due o tre cucchiaiate di spinaci lessati e passati per istaccio”.
3. Rifreddo: Pasticcio di lepre
“Rifreddo” è una parola ormai scomparsa dall’uso comune. Come spiega il Vocabolario Treccani, il termine, di origine toscana, indicava una “vivanda cotta, messa in serbo per essere consumata fredda in un altro pasto; detto soprattutto della carne”, mentre al plurale veniva utilizzato genericamente per le “vivande che si servono fredde, come carni e preparazioni in gelatina, pasticci”, da consumare come piatto di transizione tra il lesso e l’arrosto.
Il pasticcio di lepre è una ricetta lombarda che l’Artusi inserisce nella seconda edizione del libro (1895), composto da un involucro di pasta che racchiude un ripieno di carne di lepre, prosciutto e besciamella. Un vero piatto da re da riservare alle occasioni importanti, ma da evitare per chi “non ha buone braccia”, perché “la natura arida delle carni della bestia di cui si tratta e il molto ossame, richiedono una fatica improba per estrarne tutta la sostanza possibile”.
4. Arrosto: Gallina di Faraone e uccelli
L’ultima pietanza di carne del pranzo natalizio è la faraona – che era nota anche come ‘gallina di faraone’ –, un gallinaceo “originario della Numidia”, che “era presso gli antichi il simbolo dell’amor fraterno”. Addomesticata dai Greci e dai Romani, per secoli scomparve dalle tavole europee e vi fece ritorno soltanto nel Quattrocento, grazie ai navigatori portoghesi che la importarono dalla Guinea. “Il modo migliore di cucinare le galline di Faraone è arrosto allo spiede – spiega il gastronomo –. Ponete loro nell’interno una pallottola di burro impastata nel sale, steccate il petto con lardone ed involtatele in un foglio spalmato di burro diaccio spolverizzato di sale, che poi leverete a due terzi di cottura per finire di cuocerle e di colorirle al fuoco, ungendole coll’olio e salandole ancora”.
5. Dolci: Panforte di Siena, Pane certosino di Bologna, Gelato di mandorle tostate
Per dessert l’Artusi sceglie due celebri specialità della tradizione del Centro Italia – entrambe nate nei laboratori degli speziali durante il Medioevo –, delle quali però non riporta la ricetta. Sono il Panforte di Siena – che viene soltanto citato, nel paragrafo dedicato ai ricciarelli, tra i dolci tipici della città toscana –, a base di frutta secca e canditi mescolati con miele e racchiusi tra ostie da pasticceria, e il Pane certosino di Bologna – chiamato così perché i monaci certosini rielaborarono la ricetta medievale –, uno squisito dolce da forno impastato con farina, mandorle, canditi, uvetta, miele, cioccolato, burro e spezie. E per finire un gelato alla crema arricchito da mandorle tostate, al solo scopo di “favorire la digestione” – “Il gelato non nuoce alla fine del pranzo, anzi giova, perché richiama al ventricolo il calore opportuno a ben digerire” – dopo un pranzo così abbondante, secondo le credenze dell’epoca.