Un saporito contorno di cipolle bianche tagliate finemente, soffritte a fuoco dolcissimo in un po’ di strutto e cotte a lungo con l’aggiunta di pomodori pelati freschi, fino a raggiungere la consistenza di una crema. È il friggione, una vera istituzione della cucina bolognese, tanto che la sua ricetta, ritrovata in un manoscritto del 1886 di proprietà della signora Maria Manfredi Baschieri, dieci anni fa è stata depositata alla Camera di Commercio di Bologna, dove è conservata insieme a quella dei celebri tortellini e delle tagliatelle al ragù.
Due sono i segreti per un frizàn o frizòn – da frizàr, “friggere” nel dialetto locale – a regola d’arte: il tempo, innanzitutto, un paio d’ore per far macerare le cipolle con zucchero e sale, per far sì che perdano la nota più acre, e un’altra ora e mezza di cottura a fiamma bassa, dentro un tegame di coccio, necessaria affinché i bulbi diventino tutt’uno con i pomodori. E poi la scelta di cipolle di qualità sopraffina: nella sua città natale il friggione è preparato con quelle di Medicina – coltivate nel comune del bolognese sin dal XIII secolo –, bianche, dalla polpa consistente e dal gusto pungente, o dalla buccia dorata.
In passato la corposa salsa costituiva spesso la colazione di lavoro dei contadini nei campi, ma veniva mangiata soprattutto la domenica e in altri momenti di festa, quando in tavola troneggiava il ricchissimo bollito misto (muscolo e lingua di manzo, gallina, guanciale di vitello, zampone e cotechino) – una consuetudine tutt’ora esistente tra i bolognesi doc. Ma “al frizan le bòn con tot” – “il friggione è buono con tutto” –, perciò oggi compare nell’antipasto o nell’aperitivo, sui crostoni di polenta e sul pane caldo o bruscato, ed è impiegato persino per condire la pasta, sempre accompagnato da un ottimo Barbera dei Colli Bolognesi. A Modena, invece, viene spalmato sulle tigelle, le famose focaccine di farina, strutto, lievito e acqua.