Una girandola di pasta bignè, né dolce né salata, ricoperta da una generosa quantità di crema pasticcera e completata da due o tre chicchi di amarena sciroppata, dal caratteristico gusto agrodolce. La serpula – un termine latino che significa “serpentello attorcigliato”, da cui il termine “zeppola” – è un contrasto di sapori unico, motivo che l’ha resa una delle prelibatezze più note e apprezzate della pasticceria napoletana.
Come molti altri dolci partenopei, la zeppola nacque nelle cucine dei monasteri, probabilmente attorno al 1700, ma non sappiamo con certezza di quale convento si trattasse: se ne “contendevano” la paternità, infatti, le suore di Santa Patrizia nel Monastero di San Gregorio Armeno, nel vicolo omonimo dedicato all’arte presepiale, e altri due ordini del centro antico della città, le suore della Croce di Lucca, in Via dei Tribunali, e quelle dello Splendore, nella chiesa annessa al Conservatorio di San Pietro a Majella.
La prima ricetta scritta risale al 1837, riportata in un manuale di cucina di Ippolito Cavalcanti, celebre gastronomo napoletano, che riportò la preparazione di una zeppola impastata con farina, uova, acqua e vino bianco e poi fritta “co’ ll’uoglio o co’ la ‘nzogna”, ovvero in olio o nello strutto. Sebbene la “vera” zeppola sia quella fritta, negli anni si è diffusa anche una versione cotta al forno, oggi addirittura più venduta dalle pasticcerie rispetto a quella originale, perché più digeribile.