
Un tempo era considerato un cacio ‘popolare’, perché veniva utilizzato nelle cucine più umili per dare sapore alle minestre di verdura e renderle più sostanziose. Oggi invece il Toma Piemontese – e non ‘la’ Toma, come si potrebbe pensare – figura tra i formaggi più pregiati del Belpaese: è una delle 48 specialità casearie italiane tutelate dal marchio DOP (che ha ricevuto nel 1996) e si distingue per il sapore unico, che deriva dall’utilizzo esclusivo di latte vaccino, e per il processo di produzione, che nelle province di Torino, Cuneo, Vercelli, Biella, Novara e in alcuni comuni dell’astigiano si tramanda da una generazione all’altra da almeno mille anni. Ne esistono due varietà: la tradizionale, ottenuta dal latte intero, morbida, dal sapore dolce e dall’aroma delicato, e la semigrassa, ricavata con il latte parzialmente scremato, dal gusto intenso e dalla pasta semidura.
Utilizzato nella cucina piemontese nella fonduta, fuso sul brasato, per accompagnare la polenta o nei risotti, il Toma si presta anche a preparazioni più leggere e adatte al periodo estivo: quello morbido, in particolare è l’ideale per condire la pasta, abbinato allo speck o ad ortaggi di stagione saltati in padella, come zucchine o melanzane. Perfette come piatto unico nella stagione calda le insalatone – con sedano e noci, con lattuga e pere, con mele e finocchi –, che oltre ad essere fresche e gradevoli vantano un buon contenuto di proteine, derivato dall’elevata percentuale di caseina del latte delle razze autoctone.
Il formaggio piemontese è indicato ancora per farcire quiche e torte salate, da portare comodamente con sé per un picnic di mezza estate in campagna, o per preparare golosi stuzzichini, per esempio gli spiedini – in questo caso è sufficiente tagliarlo a cubetti e alternarlo con pezzetti di salame o prosciutto crudo, pomodorini, pere o melone. Naturalmente può essere assaporato anche in purezza, su una fetta di pane casereccio o sulle pagnotte tipiche del Piemonte, come il Biove, dalla forma allungata e dall’interno cavo, e la farinata di ceci, la tipica focaccia cotta nel forno a legna, all’interno di teglie di rame.
Nella sua terra natale il Toma viene utilizzato pure nel Bruss, un’antica specialità regionale, cremosissima ma dal sapore molto forte, ricavata dalla crosta e dai residui di diversi formaggi (toma, tomini, robiole) fatti fermentare nella grappa.
Per mantenere inalterate le caratteristiche di questo delicato cacio è consigliabile conservarlo nel ripiano meno freddo del frigorifero, avvolto nella sua carta e chiuso all’interno di un contenitore di vetro.
Un formaggio umile
Un formaggio umile
La produzione – antichissima – del Toma piemontese inizia già in età romana, anche se per le prime notizie certe bisogna aspettare l’anno Mille, quando in alcuni documenti questo formaggio viene citato tra quelli che compongono il pastus, il cibo che veniva distribuito ai poveri e ai lavoratori subalterni. Nel XIV secolo il medico Pantaleone da Confienza, nella sua Summa Lacticiniorum (1477) – un ampio trattato sul latte e i suoi derivati – con l’espressione caseus mordicativus indicava una serie di tome (di Lanzo, Susa, Locana, Ceresole e Moncenisio) dal sapore piccante dovuto alla lunga stagionatura. Considerato un alimento ‘plebeo’ – dal momento che contadini e pastori ne facevano largo uso non potendo permettersi la carne –, solo nel 1600 il Toma si diffuse tra le classi più agiate, superando i pregiudizi dei medici dell’epoca che lo ritenevano troppo pesante. Il suo consumo, per secoli limitato soltanto nelle zone montane, col tempo si è ampliato grazie al lavoro dei malgari, i pastori che portano il bestiame a pascolare dalle vette alpine alla pianura.
La lavorazione ancora oggi conserva caratteristiche artigianali: dopo la rottura della cagliata quest’ultima viene posta all’interno di fascere e rivoltata più volte per far cadere il siero in eccesso – proprio la caduta della caseina, che in dialetto piemontese è detta tomé, è l’operazione che dà il nome al formaggio. La pasta viene poi salata a mano, con sale grosso o salamoia, e messa a stagionare per un periodo che va dai 15 giorni ai due mesi, all’interno di grotte dove la temperatura si mantiene sempre fresca, beneficiando del clima gradevole delle Alpi, con inverni freddi ed estati mai afose.