La coppa piacentina…
Un colore rosso inframmezzato da venature bianco-rosate, un peso non inferiore al chilo e mezzo ma soprattutto un gusto particolarmente dolce, che si affina con il procedere della maturazione: questi i tratti peculiari della Coppa Piacentina DOP, che grazie alla sua delicatezza è protagonista di numerose ricette, dagli antipasti ai secondi. Ottima al carpaccio, con funghi champignon a crudo, lamelle di Parmigiano Reggiano e gherigli di noci e condita con olio, aceto, sale e pepe, è spesso utilizzata per dare carattere ai primi piatti – con le linguine con un trito di erbe aromatiche o le pappardelle agli asparagi – o per abbinamenti gourmet, ad esempio con il petto d’anatra al marsala.
È difficile stabilirne con certezza la data di nascita, ma sicuramente nel XVIII secolo esisteva già, dal momento che il cardinale Giulio Alberoni, ministro di Filippo V di Spagna, ne era talmente ghiotto da regalare il prelibato salume anche ai suoi conoscenti.
La carne impiegata per la coppa, proveniente da allevamenti emiliani e lombardi è massaggiata, spremuta e rifilata da mani esperte, aromatizzata con sale, zucchero, pepe spezzettato e numerose spezie, tra cui chiodi di garofano, semi di alloro, cannella; dopo una settimana viene poi avvolta nel budello naturale, essiccata per sette giorni e infine stagionata per almeno sei mesi. Seguendo la tradizione emiliana viene prodotta anche la Coppa di Rovagnati, dal gusto dolce, morbido e pastoso.

Un evento da non perdere per gli estimatori del prelibato salume è la Festa della Coppa, che si svolge ogni anno a fine estate a Carpaneto: quest’anno l’appuntamento per assaggiare il ghiotto insaccato, insieme a pisarei e fasö, tortelli al burro, porchetta, stinco di maiale e altre specialità locali è dal 5 all’8 settembre, nelle vie del borgo in provincia di Piacenza.
…e quella di Parma
Riconosciuta con l’Indicazione Geografica Protetta, la coppa di Parma si caratterizza per la tenerezza delle carni, dovuta a tempi di stagionatura relativamente brevi, di 60 o 90 giorni. Grazie alla sua morbidezza è l’ingrediente perfetto per torte salate e pizze ripiene, ma è ottima anche nelle insalate, da sola sul pane appena sfornato oppure, come il prosciutto crudo, abbinata a melone o fichi.
Considerata da sempre uno dei simboli gastronomici di Parma, in origine era prodotta esclusivamente per il consumo familiare; a partire dal 1700 veniva già menzionata nelle memorie dei viaggiatori come prodotto tipico del luogo.
Il capocollo di Calabria…
Il “massaggio” con pepe nero in grani o in polvere, oppure con peperoncino rosso piccante, è ciò che connota il Capocollo di Calabria DOP, dandogli un profumo deciso e ricco. Ricavato dalle carni dei suini locali e provenienti dalle regioni limitrofe, viene stagionato per 100 giorni in ambienti freschi e asciutti e gustato in purezza, sul pane caldo o sulla focaccia o con i formaggi. Spesso abbinato a verdure crude o cotte, diventa sorprendente con le cipolle di Tropea, dal sapore dolce e quindi in grado di bilanciare quello più importante del capocollo.
Anche in Calabria le prime testimoniante scritte riguardo alla lavorazione del suino risalgono al 1600, ma la produzione dei salumi iniziò probabilmente all’epoca della colonizzazione della Magna Grecia. Nelle famiglie contadine fino al secolo scorso costituiva anche il pranzo degli operai nel periodo della vendemmia e della mietitura, che lo mangiavano sul pane.
La Calabria è patria anche del pregiatissimo Capicoddho azze anca, un antico prodotto originario della Bovesìa, o area grecanica, compresa tra il basso Jonio reggino e l’Aspromonte, abitata tuttora da una minoranza linguistica ellenofona (qui le persone anziane parlano un dialetto discendente dal greco antico). Il Capicollo di questa zona è ricavato dalla coscia (e non dalla cervice), disossata, ripulita e avvolta in sottili veli di grasso, che danno al risultato finale una morbidezza particolare. Lavorato con peperoncino rosso a scaglie, semi di finocchietto selvatico e pepe nero, il salume viene insaccato e stagionato per almeno 180 giorni nei tradizionali catoi, i seminterrati delle aree rurali. Sono soltanto tre i produttori che portano avanti questa tradizione centenaria al punto che Slow Food, per scongiurarne l’estinzione, ha inserito il Capicoddho dell’Aspromonte tra i suoi presidi.