Come tanti altri piatti storici della tradizione italiana, le origini del castagnaccio sono legate alla necessità di dar da mangiare a tante bocche avendo a disposizione poche risorse. In ogni casa di campagna non mancava mai qualche chilo di farina di castagne.
Lo ritroviamo in quasi tutta l’Italia settentrionale e centrale – dal Piemonte al Trentino Alto Adige, dalla Lombardia al Veneto, dalla Liguria alla Toscana, fino all’Emilia Romagna, all’Abruzzo, alle Marche e al Lazio –, regioni ricche di castagneti, ma anche in Campania. Nutrienti e poco costose (a differenza di oggi), le castagne in passato erano immancabili nelle case dei contadini che le consumavano in abbondanza, lesse, arrostite sul camino o nelle minestre, a cui danno sostanza e sapore; una parte era macinata nei mulini a pietra azionati dall’acqua e si trasformava in farina. Quest’ultima era poi impiegata per cucinare la polenta – unita alla farina di mais –, la pasta fresca e, appunto, il castagnaccio.
Sebbene sia difficile stabilire con certezza il suo luogo di nascita, da più parti è la Toscana ad essere considerata la patria di questo dolce – esportato nel resto d’Italia a partire dall’Ottocento – qui diffusissimo e indicato con appellativi diversi a seconda della città: “migliaccio” – come la specialità partenopea, completamente diversa,a base di semolino e ricotta – a Firenze; “pattona” in Lunigiana – qui c’era l’usanza di cuocerlo nelle foglie di castagno, utilizzate come “teglia”; “toppone” a Livorno; “baldino” ad Arezzo; “torta di neccio” a Lucca; infine con il nome originale di “castagnaccio” a Siena e Prato, dove viene rispettivamente cucinato con la farina di castagne del Monte Amiata, disponibile soltanto da fine novembre, e della Val di Bisenzio.
L’umanista Ortensio Lando, nel Commentario delle più notabili et mostruose cose d’Italia e di altri luoghi (1553) ne attribuì l’invenzione a un certo Pilade da Lucca, “il primo che facesse castagnazzi e di questo ne riportò loda”; in seguito la ricetta fu riportata da Vincenzo Tanara, agronomo bolognese vissuto nel XVII secolo, che nella sua opera L’economia del cittadino in villa, descrisse diverse versioni dei “castagnazzi”, dolci che in realtà con la ricetta tradizionale condividevano soltanto la farina di castagne – erano arricchiti con “cacio parmigiano”, “cacio nostrano grasso”, o ancora fritti “in padella con butiro”.
Secondo una curiosa leggenda, gli aghetti di rosmarino usati nel castagnaccio avevano il potere di far nascere l’amore, perciò se una fanciulla avesse offerto un pezzetto di castagnaccio al giovane di cui era innamorata, questi ne avrebbe presto ricambiato i sentimenti e condotta all’altare.